Virtù

a cura di  Giuseppe Marmo[1]

 

La parola latina virtus, [virilità], dal latino vir [uomo] si riferisce letteralmente alla forza fisica e al coraggio.

In epoca omerica la virtù [areté], è associata all’idea di “eccellenza”, alla capacità di svolgere abitualmente una certa azione in maniera ottimale.

Quindi, la virtù, o meglio, le virtù sono abilità, buone abitudini, esercitate, come dice Aristotele, per conseguire il bene. Ne deriva che la virtù implica un agire concreto (virtuoso), un operare dell’individuo nella direzione del bene.

Tale operare, però, non può essere arbitrario. A nessuno, infatti, è concesso di conseguire il proprio bene se non permette anche agli altri di conseguire il loro. La virtù non invade lo spazio dell’altro, ma libera spazio perché l’altro possa essere meglio e più autenticamente raggiunto dalla sua libertà.

L’esercizio pratico della virtù, o meglio delle virtù, trova, quindi, un suo territorio elettivo nei rapporti che ciascuno intrattiene con i sistemi relazionali che quotidianamente attraversa e costruisce: fra persone, fra individui e collettività plurali, fra collettivi e sistemi sociali strutturati.

Pertanto, il territorio operativo delle virtù sta certamente negli individui, ma trova concretezza ed efficacia soprattutto nelle relazioni sociali.

Ed è su questo aspetto che si innesta la dimensione virtuosa della politica che, come afferma Machiavelli, si definisce non a priori ma in base a un bene specifico; essa, infatti, non si fonda su un’idea di bene che la precede, ma persegue, costantemente in fieri, un suo particolare bene. Quale? La pace. Concetto ripreso da Hobbes il quale sostiene che la politica non deve indicare condotte; suo compito essenziale è fare in modo che ogni uomo, perseguendo la propria idea di bene, non la imponga ad altri. Proprio per questo si sostiene che la virtù fondamentale della politica è la giustizia; soltanto se si mantiene l’ordine virtuoso dei rapporti umani di può disinnescare il conflitto.

In tema di rapporto tra virtù e politica è emblematicamente sintetica la famosa Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena: i cittadini virtuosi, accomunati dalla Concordia, vincono i loro nemici guidati dal Governo del Bene Comune assiso in trono, ai cui lati, segnati a sinistra dalla Pace e a destra dalla Giustizia (ispirata dalla Sapienza), siedono la Fortezza, la Prudenza, la Magnanimità e la Temperanza.

Fare politica, anche professionale, richiede l’esercizio di tali virtù, anche se oggi può sembrare desueto ed è, in molti casi, critico. Critico perché l’esercizio delle virtù esige – dote non così diffusa – l’aver maturato la capacità di interpretare e valutare le singole situazioni oltre se stessi e il semplice rispetto della legge, morale o civile che sia. E ciò richiede equilibrio intellettuale e affettivo che si matura solo partecipando a processi educativi e culturali tipici di una comunità portatrice di un patrimonio di uomini saggi e di esempi, forme, stili che si assimilano culturalmente. La virtù non si insegna, pensava già Aristotele; la si trasmette con l’esempio, l’accompagnamento, la correzione, da parte di vite già virtuose, in ambienti culturalmente adeguati.  Questa è una sfida anche della politica professionale: combattere ogni forma di sottovalutazione delle virtù e alimentare quei circoli virtuosi negli ambienti di cura che possano consentire alle nuove generazioni di ereditare un patrimonio di valore e perpetuarlo nel tempo.

 

[1] Giuseppe Marmo – Coordinatore della Comunità Sperimentale di Riflessione Infermieristica (CSRI)